Passo troppo lento...dopo quattro puntate è successo poco o un cazzo. Quattro ore che potevano essere contenute in una o poco più. Spero in un cambio sia di ritmo sia di sceneggiatura nelle restanti quattro altrimenti dovrò ritenermi deluso, dopo l'entusiasmo per la fantastica prima serie e l'inarrivabile (e qui vado in controtendenza) seconda.
Addio, immenso Daniel! Un capolavoro assoluto, un film formalmente perfetto.
Notevole la colonna sonora firmata da Jonny Greenwood, chitarrista solista dei Radiohead
Il filo nascosto (2017) Paul Thomas Anderson
Interpreti
Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville, Sue Clark, Joan Brown
Durata:
130 min
Soggetto, sceneggiatura, fotografia:
Paul Thomas Anderson
Musiche:
Jonny Greenwood
Un'opera che porta più lontano la filmografia di Paul Thomas Anderson e sposta più avanti il cinema
Londra, anni Cinquanta. Reynolds Woodcock, celebre stilista, fa palpitare il cuore della moda inglese abbigliando la famiglia reale, le star del cinema, le ricche ereditiere, le celebrità mondane, le debuttanti e le signore dell'alta società. Scapolo impenitente, le donne vanno e vengono nella sua vita, offrendo compagnia e ispirazione. Lavoratore bulimico e uomo impossibile, Reynolds dispone delle sue conquiste secondo l'umore e dirige la sua maison con aria solenne, affiancato da Cyril, sorella e socia altrettanto ieratica. Mr. Woodcock ha un debole per la bellezza che riconosce in Alma, cameriera in un hotel della costa dove si è fermato per un break(fast). La giovane donna, immediatamente sedotta da quel "ragazzo affamato", lo segue a Londra e ne diventa la musa. Stabilitasi nella casa di Knightsbridge, Alma rivela presto un carattere tenace, vincendo lo scetticismo di Cyril, che la crede di passaggio, e accomodando le (brusche) maniere del suo Pigmalione. Ma la difficoltà crescente di ottenere un vero impegno da Reynolds la spinge a trovare un rimedio. Insieme a The Master e a Vizio di forma, Il filo nascosto conferma che qualcosa è sopraggiunto nel cinema di Paul Thomas Anderson. La sua padronanza formale si tempera con accenti borderline che tracciano linee di fuga ma contemplano il ritorno. Alla maniera dei tessuti selezionati da Mr. Woodcock, gli ultimi tre film di PTA assomigliano più a fili incrociati di trama e di ordito che alle vecchie costruzioni corali. Al climax violento o assurdo (il colpo di pistola di Boogie Nights o la pioggia di rane di Magnolia), subentra una follia lucida e irridente che minaccia i piani a ripetizione, che smarrisce gli sguardi nel fuori campo, che promette scarti, che disegna fughe interrotte. Come quella di Reynolds Woodcock davanti al sorriso enigmatico di Alma, che colloca il film tra veglia e allucinazione, lasciando planare il dubbio sul loro confine. Opaco e sinuoso, Il filo nascosto serve due attori indefettibili che si misurano sulla scena di un'epoca (gli anni '50) sensibile alla seduzione cinegenica e in una relazione più complessa di quella che il quadro iniziale lasciava immaginare. Daniel Day-Lewis, maestro del linguaggio e della verità del corpo a discapito dell'eloquenza, trasforma il suo nel recettore di passioni di un personaggio privato di tante parole e dotato di un'aggressività a fior di pelle. Daniel Day-Lewis appartiene di fatto a quegli attori prossimi all'afasia, la cui rivolta sorda traspira dal corpo e la verità di un ruolo arriva necessariamente dall'interiore. Per l'attore inglese la performance è sempre un gesto da automatizzare, una vita da assimilare, una psicologia da dominare. A rischio di dannarsi. Questa intensità spiega una carriera e un ruolo, l'ultimo ha dichiarato l'interprete, che coltivano esigenza e rigore. Il ritratto di uno stilista senza concessioni, devoto alla sua arte, funziona come una metafora della maniera notoriamente intensa dell'attore di affrontare la sua. PTA, che ritrova Daniel Day-Lewis dieci anni dopo Il petroliere, è anche lui un maniaco assodato del dettaglio che aggiunge un'altra mano di senso a un'opera confezionata imbastendo sottotesti. Tracce invisibili, fili nascosti, pensieri ricamati e cuciti nelle pieghe, negli orli, nei risvolti. Al loro fianco ma al centro del racconto c'è l'Alma di Vicky Krieps, rivelazione che non cessa di sorprendere di fronte a un personaggio e a un attore che hanno perfezionato il punto di incandescenza del proprio ruolo. Persuasi entrambi della propria onnipotenza, saranno ridotti all'impotenza da una donna sottostimata. Mostro di misoginia, Reynolds ha fatto dell'oggettivazione delle donne la sua professione ma con Alma il rapporto di forza si inverte progressivamente. Drammaturgicamente più forte, si impone come un personaggio di cui non sapremo mai tutto ma il cui volto dice tutto della sua maniera di attraversare il mondo. È lei a svolgere e riavvolgere l'arco narrativo di Reynolds, confidandosi a terzi e costringendolo in una forma di infantilizzazione. Regressione, del resto, perfettamente logica per un uomo ossessionato dalla madre, ideale al quale Alma vorrebbe sostituirsi prima all'insaputa di Reynolds e poi con la sua benedizione. È suo il punto di vista da cui scopriamo Reynolds Woodcock, monomaniaco fissato col magenta e i codici dell'alta borghesia. Con lei entriamo in una vita scrupolosamente pianificata dove ognuno trova il suo posto, dove le seccature vengono risolte secondo una routine stabilita, dove si respira una freddezza mortifera e sopravvive il fantasma di una madre defunta. Il ritmo contemplativo permette al regista di osservare l'insidiosa influenza di Woodcock sulla sua musa e di sottolineare l'importanza del suo mestiere, che lo affascina quanto il cinema britannico a cui fa riferimento e a cui rende omaggio. La grazia con la quale descrive il suo lavoro, soprattutto quando è Alma a fare da modella al suo eroe, rivela una sensualità che compensa il pudore della loro relazione. Ma quello che al principio appare come un raffinato teorema romantico volge in thriller psicologico, quello che sembrava un magnifico esercizio di riferimenti (Rebecca - La prima moglie, Il sospetto) si fa opera autonoma d'eccezione. Lo sviluppo passionale convenzionale cede il passo a un gioco di manipolazione, una codipendenza tra appassionati schiavi del dolore, coerente con l'immagine delle relazioni umane che l'autore ha l'abitudine di indagare lungo le derive del sogno americano. Tutto oppone Reynolds e Alma, a partire dalla classe sociale, ma la seduzione che esercitano l'uno sull'altra testimonia il motivo di predilezione dell'opera di PTA, la lotta tra materia e spirito. Questa lotta è messa in scena ancora una volta con precisione millimetrica dentro interni ipnotici, dove si consuma lo spettacolo affascinante di miseria e acquisto spirituale, agisce l'ideologia autodistruttiva e tossica dell'alta società londinese, la sua falsa apparenza e la nevrosi che dissimula. In un film apertamente psicologico, l'autore infila scena dopo scena verità eterne sulla dualità, l'ambiguità, l'inversione possibile dei ruoli dominante e dominato. Tutte considerazioni già presenti in The Master e in fondo ai piani muti in cui cova l'impulso viscerale dei suoi personaggi. Prima delle parole per PTA ci sono gli attori. Non serve altro per identificare lo stupore dei suoi amanti e la profondità dei loro abissi quasi intollerabili nell'ultimo testa a testa. Confronto intimo che segna la débâcle fisica e psicologica di Reynolds e insinua una frattura. Constatare che l'assoluto a cui aspira risiede altrove che nel suo perfezionismo è una presa di coscienza troppo dura da sopportare. Anche per il suo interprete.
Riconoscimenti
2018 - Premio Oscar
Migliori costumi a Mark Bridges Candidatura per il miglior film Candidatura per il miglior regista a Paul Thomas Anderson Candidatura per il miglior attore a Daniel Day-Lewis Candidatura per la miglior attrice non protagonista a Lesley Manville Candidatura per la migliore colonna sonora a Jonny Greenwood
2018 - Golden Globe
Candidatura per il miglior attore in un film drammatico a Daniel Day-Lewis Candidatura per la migliore colonna sonora originale a Jonny Greenwood
2017 - National Board of Review Awards
Migliori dieci film dell'anno Miglior sceneggiatura originale a Paul Thomas Anderson
2017 - New York Film Critics Circle Awards
Miglior sceneggiatura originale a Paul Thomas Anderson
2017 - San Diego Film Critics Society Awards
Migliori costumi a Mark Bridges 2017 - Chicago Film Critics Association
Candidatura per il miglior attore a Daniel Day-Lewis Candidatura per la miglior attrice a Vicky Krieps Candidatura per la miglior attrice non protagonista a Lesley Manville Candidatura per la miglior sceneggiatura originale a Paul Thomas Anderson Candidatura per la miglior direzione artistica a Mark Tildesley e Véronique Melery Candidatura per la miglior colonna sonora a Jonny Greenwood
2018 - Critics' Choice Awards
Candidatura per il miglior attore a Daniel Day-Lewis Candidatura per la migliore scenografia Candidatura per i migliori costumi a Mark Bridges Candidatura per la miglior colonna sonora a Jonny Greenwood
2017 - Boston Society of Film Critics
Miglior film Miglior regista a Paul Thomas Anderson Miglior colonna sonora a Jonny Greenwood Candidatura per la migliore attrice a Vicky Krieps 2018 - Satellite Award
Candidatura per il miglior attore a Daniel Day-Lewis Candidatura per i miglior costumi Candidatura per la migliore scenografia 2019 - Premio Goya Candidatura per il miglior film europeo
Un delicato capolavoro, senza fronzoli né retorica, un film che fa bene al cuore...
Virgin Mountain (2015) di Dagur Kári
Fúsi è un quarantenne timido, obeso, solitario, che vive ancora con la madre. Le sue giornate, metodicamente scandite tra una ricostruzione in scala della battaglia di El Almein e una telefonata alla radio locale, passano con la lenta rassegnazione con cui nelle ore di lavoro trasporta i bagagli all’aeroporto. L’intera vita di Fúsi sembra immobile, intrappolata in un interstizio che separa i momenti di vita vera, tra uno smistamento bagagli e l’altro. L’incontro con la dolce e problematica Sjöfn diventa fatale: è l’intero mondo che sembra ora schiudersi dinanzi a lui. Virgin Mountain, quarto lungometraggio firmato da Dagur Kári (Nói albínói, Voksne menneske – Dark Horse, The Good Heart), è un poetico e toccante racconto sulla solitudine, la diversità, l’esclusione, le diverse sfumature di un disagio nell’abitare la propria pelle. In questo film del 2015 – presentato alla 65° Berlinale e poi passato per numerosivirgin mountain3 festival collezionando premi, fino all’approdo dell’anteprima italiana al Bergamo Film Meeting di quest’anno -, ritroviamo tutte le tematiche care al cineasta islandese: è di nuovo l’emarginazione l’idea cardine attorno cui si sviluppa il movimento narrativo; la figura paterna elemento problematico e inafferrabile, l’amore la promessa (o il miraggio) di salvezza; di nuovo il viaggio, l’allontanamento, come spiraglio per nuove opportunità e speranze, e l’elemento utopistico rappresentato dai posti caldi, incarnato simbolicamente dalle ricorrenti palme esotiche. È anche la desolante amarezza di uno scenario antropologico che etichetta e comprime, a riaffacciarsi in Virgin Mountain, e un ambiente che circonda, placca, soffoca. Non una scenografia naturale stavolta, come avveniva nell’opera d’esordio, ma le ambientazioni chiuse che intrappolano il corpo e le aspettative del protagonista. Sorta di ventre materno dilatato, che protegge (ma separa anche) dal mondo esterno, un mondo che si riverbera attraverso vetri smerigliati e musica amplificata, e che ben poco si lascia intravedere. E lo sguardo del regista danza delicatamente attorno al suo personaggio principale, si lascia assorbire e guidare dai suoi movimenti, entro le pieghe di una sensibilità e una fragilità disarmanti. Una fragilità nei confronti del mondo che appare in tutta la sua ingenua sincerità, e che il magnifico interprete Gunnar Jónsson (Rams – Storia di due fratelli e otto pecore) veste con sublime semplicità e tenerezza. È con questo avvicinamento di prospettiva, che Kári sembra raggiungere in questo film denso di agrodolci malinconie una maggiore complessità stilistica: è ancora un occhio pittorico, quello che osserva dietro la telecamera, ma un occhio che predilige stavolta i dettagli, le inquadrature strette, una vicinanza emotiva che negli sguardi e nei silenzi trova la voce di Fúsi. E lo spessore narrativo riesce a toccare tante sfumature tematiche, sfiorandole con la leggerezza di un ritmo che sa essere lieve e disturbante al contempo. Senza affondare troppo, senza perdere di vista il retrogusto umoristico, la dolcezza, il sogno, la poesia. (FONTE: Cineforum)
Titolo originale: Fúsi Regia: Dagur Kari Interpreti: Gunnar Jónsson, Ilmur Kristjánsdóttir, Sigurjón Kjartansson Origine: Islanda, Danimarca, 2015 Distribuzione: Movies Inspired Durata: 94′
Un mondo senza speranze colmo di persone che sperano...uno dei più intensi film che abbia mai visto
Mommy di Xavier Dolan
drammatico | Canada (2014)
Cast: Anne Dorval Antoine-Olivier Pilon Suzanne Clément
Regia: Xavier Dolan
Durata: 139'
Produzione: Xavier Dolan
Sceneggiatura: Xavier Dolan
Fotografia: André Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Costumi: Xavier Dolan
Mommy è il film del regista più libero che c’è
Christian Raimo, giornalista e scrittore, da Internazionale
Mommy è la storia di un rapporto madre-figlio, un amore fusionale, totale e ovviamente melodrammatico, tra un ragazzo con un bel po’ di problemi caratteriali e una donna vedova, single e nevrotica. I due vanno a vivere insieme in una nuova casa in un quartiere povero, un suburbio di un’anonima città del Quebec, litigano furiosamente e altrettanto furiosamente fanno pace, conoscono la vicina di casa – un’insegnante in anno sabbatico, ipersensibile al limite dell’implosione ma affettuosa – che diventa una sorta di presenza organica di questa famiglia di strambi allegri infelici. Qualche giorno fa sono andato a vedere Mommy; era il secondo o il terzo giorno di programmazione, sono entrato allo spettacolo delle 22.20 in un cinema medio grande romano. Ero con due miei amici, e in tutto il cinema c’erano altri cinque spettatori. L’odore dei popcorn lasciati sul pavimento da quelli dello spettacolo delle 20 faceva sembrare ancora più triste un cinema così vuoto, come mi rendevo conto che era abbastanza deprimente – oltre che insensato – vedere Mommy doppiato (nonostante la bravura dei doppiatori) e non nel francese québécois; ma nelle otto sale dove era proiettato a Roma, non ce n’era nessuna che lo dava in versione originale. Nonostante tutto ciò, è difficile non considerare – lo fanno tutte le top ten – Mommy uno dei migliori film dell’anno, un quasi capolavoro, un’opera incredibile se si considera che il regista Xavier Dolan è uno che ormai è perfino stucchevole reputare un enfant prodige (a 25 anni ha realizzato cinque film non così piccoli, uno più bello dell’altro, il primo a 19 anni su una sceneggiatura scritta a 17) ed è difficile non ammettere la bellezza di Mommy fin dal primo minuto. Ossia fin da quando Dolan decide di restringere lo schermo a un quadrato. Una dimensione 1:1 invece di un 4:3 o di un 16:9, due barre di nero al lato dunque che producono subito due effetti. Primo, farci sentire attraverso questo piccolo stratagemma il senso di artificio rispetto a quello che stiamo vedendo; secondo, stringere il fuoco intorno agli attori come a volerli placcare – una camera piazzata addosso. Da questo quadrato e da una scritta in sovraimpressione parte Mommy. Nella scritta in sovrimpressione si dice che siamo nel futuro prossimo (giusto il 2015) di un Canada appena appena distopico, dove è possibile per genitori con figli problematici affidarli a (leggi: internarli in) ospedali psichiatrici appositi. Questo duplice artificio – visivo e narrativo – compie una magia: riesce a rendere per contrasto immediatamente vitale, iperrealistico, quello che accade nel quadrato. E dentro la cornice del quadrato c’è tutto. Subito: ci sono luci che entrano in campo in modo invadente, riverberando come una pioggia solare (siamo dalle parti di Terrence Malick, per capirci). E c’è appunto il corpo di DDD, Diane “Die” Després – una donna senza lavoro, sfortunata, spiccia, arrogante, cafona – che si va a riprendere suo figlio Steve da una specie di riformatorio: suo figlio iperattivo, ingestibile, che ha appena massacrato di botte un compagno. Che farne di questo figlio impossibile? Quando lo vediamo comparire in scena, un clamoroso Antoine-Olivier Pilon, capiamo che la risposta di Diane può essere solo una: rimanere soggiogati dalla sua invadenza. Lei lo ama alla follia, lui ricambia. Più edipici di qualunque Edipo, si insultano e si abbracciano, si stuzzicano e si giurano amore eterno, si picchiano e si perdonano. (“Ma noi ci amiamo ancora, vero?” “Certo, è la cosa che ci riesce meglio”). Basterebbero i loro bisticci continui, le risate spanciate, le voci urlate, a ingombrare tutto il film, come accade a Diane e Steve con il loro appartamento messo a soqquadro una scena sì e una no, e come accade a noi spettatori distratti dalla recitazione esplosiva di Anne Dorval e Antoine-Olivier Pilon. Ma poi dentro il quadrato, Dolan sa che può osare, e inserire tutto ciò che ha a portata di mano. Quindi, come a saturare lo spazio disponibile, getta dentro da subito un sonoro sporco e onnipresente (rumori di chiavi, chiacchiericcio, traffico…) e una presenza musicale schiacciante, autoradio in sordina e volumi che si alzano e si abbassano e stereo a palla che si sovrappongono a altre fonti musicali e alle volte si sovrappongono anche a una colonna sonora già di suo invadente, cafonissima, iper-pop: i brani più sputtanati di Craig Armstrong, Dido, Counting Crows, Lana Del Rey, Oasis. (qui un’intervista sul rapporto con la musica di Dolan). Ma tutto questo eccesso – la recitazione iperemotiva, la camera attaccata ai corpi (più di Gus Van Sant, più dei Dardenne, più della televisione-verità), i grandangolari, i primissimi piani, sequenze di volti come una serie continua di fototessere, campi e controcampi quasi da soap, la musica a cascata… – ancora non basta a Dolan per creare una sua estetica compiuta e ammaliante. Occorre la fotografia di André Turpin, che satura anche lui: gli esterni allagandoli di luce solare che alle volte ci mostrano una sorta di apocalisse tropicale in Canada, e le scene d’interni virandole al verde, al giallo ocra, al rosso, al dorato, al blu elettrico… Oppure, come una specie di scommessa da genio, reinventandosi completamente i toni del film in una scena in cui si dice che è appena avvenuto un black-out e i personaggi si muovono in una penombra bluastra. E ancora: una sapienza di montaggio (sempre Dolan, che firma regia, sceneggiatura, produzione, costumi, e montaggio appunto) per cui i non detti, le elisioni, le omissioni sono lasciati alla sceneggiatura, mentre se c’è qualcosa che ci viene mostrato, noi lo ipervediamo. Clinicamente, senza pudore. Ed ecco per esempio l’uso, l’abuso del ralenti, che è una cifra stilistica di Dolan (qui e qui un paio di meravigliosi esempi presi anche dai suoi precedenti film) Perché accade tutto questo in Mommy e non ci sembra di avere a che fare con un prodotto kitsch o addirittura con il bluff di un bravo videoclipparo? Nelle interviste dopo Cannes, dove ha vinto il premio speciale della giuria ex aequo con Jean-Luc Godard, Dolan recitava onestamente la parte di quello che non ha mai visto i film di Fassbinder o Cassavetes (a cui viene facile, è vero, di accostarlo) e che con grande naturalezza dichiara che Godard non ha praticamente nessun posto nella sua ispirazione, occupata da gente come Jane Campion o Wong kar wai ma anche e soprattutto da Peter Jackson e da James Cameron, le scene iniziali del Signore degli anelli o quelle sul ponte del Titanic i suoi feticci. E allora, come è possibile che da queste naïveté, da questo consumista radicale di immagini, possa venire fuori un lavoro così raffinato? Dolan è seduttivo e geniale perché arriva a ridefinire che cos’è il pop, e lo fa come se la storia del cinema non esistesse e fosse stata sostituita da una specie di continua rappresentazione diffusa: lì il suo inconscio si è formato, tra i riferimenti commerciali degli anni novanta. E da regista cresciuto nel mondo di YouTube e film in streaming, non ha soggezione nei confronti di nessuno, né desiderio di emulazione. Dolan è più libero di quella generazione di registi iconoclasti come Tarantino e Almodóvar, perché non rielabora, non usa il grottesco, o l’ironia, e non rovescia nemmeno il melò per rifarlo in salsa gay. Dolan letteralmente dilaga, è bulimico, incontenibile, fa tutto, e vuole tutto. Questa è la sua forza. Ci sono tre scene – e qui spoilero un bel po’ – in cui questa potenza dilagante, questo debordamento estetico arriva a inondare lo spettatore, che a quel punto o si ritrae oppure si lascia sommergere. La prima arriva quando Steve in skate e le due donne, Die e Kyla, la vicina (Suzanne Clément, strepitosa anche lei), in bici escono per il quartiere; la camera li segue incalzata dalla musica (Wonderwall, Oasis) che batte sullo schermo e lo deforma letteralmente: Steve allarga le braccia e per un istante il formato quadrato si apre e ingloba tutto. Vi sarà capitato in vita vostra di volervi mangiare il mondo? La seconda scena si svolge dopo una cena in casa, quando insieme loro tre si mettono a cantare Celine Dion. Il coraggio formale di Dolan, il suo sostanziale fregarsene di regole che non rispondano a un’emotività dello sguardo, opera un meraviglioso errore di grammatica cinematografica: la musica diegetica diventa extradiegetica. Ciò che potrebbero sentire solo loro tre a un certo punto diventa ciò che potremmo sentire solo noi spettatori. La terza è quando Steve accompagna la madre a un appuntamento con un uomo in un locale dove fanno il karaoke e Steve decide di cantare Bocelli, Vivo per lei, mentre una gelosia bruta, terminale, distruttiva se lo divora nota dopo nota. (Qui capite bene, il non-senso del doppiaggio raggiunge delle vette quasi comiche). In questi tre momenti la richiesta che Dolan fa allo spettatore non è più il suo coinvolgimento, ossia l’adesione a un’estetica febbrile. Ad un certo punto, io ho sentito che Dolan voleva essere amato, che noi quattro gatti in sala gli restuissimo l’amore che lui stava dando senza risparmio ai suoi personaggi, complicati e spesso detestabili, ma di una fragilità tale da non poterci permettere nessun distacco nei loro confronti. Si sono affidati completamente a noi. E perché questo? A che serve quest’amore? Per poterlo avere alla nostra portata in una scena verso il finale, quando Die è rimasta sola, in casa, senza Steve e senza Kyla, quando questa saturazione che abbiamo visto per due ore si rovescia nel suo ovvio opposto: un senso di solitudine infinita e agghiacciante. Una casa deserta senza un suono, con una luce troppo neutra. Mommy che fino a un secondo prima ci poteva sembrare uno struggente melodramma con un juke-box sotto, ci rivela il suo carattere invece di cinema sociale: più Ken Loach che Baz Luhrmann. E capiamo che Dolan non voleva fare un film solo su un devastante rapporto madre-figlio, ma provare a pensare come la crisi economica delle famiglie dal reddito basso monoparentali porti una sorta di distopia di massa, in cui i disagi sociali vengono oggi farmacologizzati e in futuro prossimo magari ospedalizzati. Tutte le famiglie infelici finiscono per assomigliarsi, con le stesse prescrizioni terapeutiche. Per questo ci viene da amare Die. Anne Dorval è un mostro di bravura e le dipinge sul volto di una smorfia terribile, un raggrumarsi dei nervi che si tiene senza esplodere in una tensione spaventosa. Per un attimo ogni artificio scompare, e vediamo solo il vuoto. Una performance attoriale così intensa della disperazione recentemente l’ho vista forse incarnata da Juliane Moore in Maps to the stars o da Naomi Watts in Mulholland Drive o, per andare più indietro, da Gena Rowlands in Una moglie. Ma qui stiamo già citando John Cassavetes, e Dolan giustamente mi farebbe una pernacchia.
Riconoscimenti
2014 - Festival di Cannes
Premio della giuria a Xavier Dolan Candidatura alla Palma d'oro a Xavier Dolan
2015 - Satellite Award
Candidatura come miglior film straniero (Canada) Candidatura come miglior attrice protagonista a Anne Dorval Premio Rivelazione dell'anno a Antoine Olivier Pilon
Brillante, spregiudicato, politicamente scorretto, horror, comico e un pizzico trash...
Scappa - Get Out (2017)
Cast: Daniel Kaluuya Allison Williams Catherine Keener Bradley Whitford Caleb Landry Jones Marcus Henderson Lil Rel Howery
Regia: Jordan Peele
Durata: 104'
TRAMA
Dopo appena qualche mese di relazione romanticamente idilliaca, Charlie - nero e malinconico - viene invitato nell’imponente magione degli Armitage, immersa in un lussureggiante bosco dell’Alabama, per conoscere la famiglia dell’amata Rose - bianca e vivace: il fratello eccentrico, la madre seraficamente suadente e il padre che, giura, “avrebbe voluto votare Obama per il terzo mandato consecutivo”. Ad accoglierlo, però, il ragazzo trova anche una cameriera e un giardiniere afroamericani dai modi bizzarri e scostanti, la cui presenza suggerisce un’inquietudine pronta a deflagrare quando gli Armitage aprono le porte della loro casa a un gruppo di amici ricchi, borghesi e, naturalmente, bianchi.
RECENSIONE:
(Ondacinema)
Charlie è nero, orfano, melanconico e con un passato di stenti alle spalle. Rose è bianca, solare, vivace e rampolla di una famiglia dell'altissima borghesia wasp. Nonostante le differenze, il loro amore è così intenso e sincero che li spinge presto alla prova dei suoceri. Dopo appena qualche mese di relazione romanticamente idilliaca, Charlie viene invitato nell'imponente magione degli Armitage, immersa in un lussureggiante bosco dell'Alabama, per conoscere la famiglia dell'amata: il fratello eccentrico, la madre seraficamente suadente e il padre che, giura, "avrebbe voluto votare Obama per il terzo mandato consecutivo". Ad accoglierlo, però, il ragazzo trova anche una cameriera e un giardiniere afroamericani dai modi bizzarri e scostanti, la cui presenza suggerisce un'inquietudine pronta a deflagrare quando gli Armitage aprono le porte della loro casa a un gruppo di amici ricchi, borghesi e, naturalmente, bianchi. Indovina chi viene a cena? O invito a cena con delitto? L'attore comico Jordan Peele, del duo televisivo Key & Peele, esordisce dietro la macchina da presa con un thriller orrorifico che, partito in sordina, è destinato a far parlare di sé. Raramente, infatti, un film di genere, orgogliosamente di serie B, si dimostra capace di leggere il quotidiano in maniera così profonda ed efficace, facendosi felice metafora (o meglio, specchio) del presente. Nell'America post-obamiana del Black Lives Matter, invece, "Scappa - Get Out" acquista rilievo e pregnanza proprio perché riesce a mettere a fuoco e tematizzare tre punti nodali della questione razziale contemporanea, con uno sguardo più lucido e militante di quanto possa sembrare a una visione approssimativa. Innanzitutto, il film è una denuncia contro il razzismo strisciante di cui è ancora profondamente intrisa la società statunitense, come testimoniano atrocemente i troppi casi di cronaca degli ultimi mesi. In secondo luogo, ponendo a più riprese l'accento sull'ossessione degli Armitage per la fisicità del protagonista e degli altri personaggi black, Peele smaschera le ipocrisie e le manchevolezze della borghesia progressista Usa, i cui sforzi di comprensione e accettazione dell'alterità si riducono a manifestazioni di bieco patronizing e di negazione identitaria. Come inevitabilmente succede, parafrasando Gramsci, quando una cultura egemonica vuole imporre il proprio modello a una cultura subalterna, intestandosi le battaglie e le rivendicazioni di una minoranza. Proprio per questo, in ultima istanza, l'autore propone un monito contro le derive della passività della comunità afroamericana. I corpi dei personaggi di colore che compaiono nel film sono - letteralmente - involucri vuoti, privati di ogni individualità e di ogni carattere significante. Solo ribellandosi, anche violentemente, a questo stato di apatia e rassegnazione, Charlie potrà scampare allo stesso destino di alienazione. Non a caso, i momenti più pericolosi per il ragazzo sono quelli in cui è ricondotto a una dimensione di spettatore immobile e impotente della propria esistenza, attraverso lo schermo del televisore nel seminterrato o, peggio, lo "schermo" del subconscio. A questo portato critico di pungente acume analitico e di denso valore critico, Peele unisce una sorprendente coerenza stilistica, rifacendosi alla nobile tradizione dell'horror politico degli anni 70 che trova il suo modello archetipico nel romeriano "La notte dei morti viventi". A differenza di molti horror contemporanei, infatti, "Scappa - Get Out" non procede imperterrito nella rincorsa al gore e allo spavento. Al contrario, tra una citazione di "La fabbrica delle mogli" e di "Rosemary's Baby", rinuncia al sangue (fino all'epilogo) e agli effetti speciali per insinuare progressivamente, nelle pieghe di una narrazione solo apparentemente piana, una tensione sottile e penetrante, tanto più disturbante quanto più drammaticamente reale - o quantomeno realistica. Prodotto per meno di 5 milioni di dollari dalla lungimirante Blumhouse Productions di James Blum, già incoronato come il Roger Corman del nuovo millennio, "Scappa - Get Out" ne ha rastrellati 33 nel primo weekend di programmazione, superando quota 200 milioni al box office mondiale. Alla luce della recente cronaca statunitense, è difficile pensare sia solo un fortunato caso.
2018 - Premio Oscar Migliore sceneggiatura originale a Jordan Peele Candidatura per il miglior film Candidatura per il miglior attore a Daniel Kaluuya Candidatura per il miglior regista a Jordan Peele
2018 - Premio Golden Globe Candidatura per il Miglior film commedia o musicale Candidatura per il Migliore attore in un film commedia o musicale a Daniel Kaluuya
2017 - MTV Movie & TV Awards Miglior performance comica a Lil Rel Howery Migliore performance rivelazione maschile a Daniel Kaluuya Candidatura per il Miglior film a Jordan Peele Candidatura per la Migliore performance maschile a Daniel Kaluuya Candidatura per la Miglior performance comica a Lil Rel Howery Candidatura per il Miglior cattivo a Allison Williams Candidatura per la Miglior coppia a Daniel Kaluuya e Lil Rel Howery Candidatura per il Best Fight against the System
2017 - Gotham Independent Film Awards Miglior regista rivelazione a Jordan Peele Miglior sceneggiatura a Jordan Peele Premio del pubblico Candidatura per il Miglior film Candidatura per il Miglior attore a Daniel Kaluuya
2017 - National Board of Review Awards Migliori dieci film dell'anno Miglior regista esordiente a Jordan Peele Miglior cast
2017 - New York Film Critics Circle Awards Miglior opera prima
2017 - Los Angeles Film Critics Association Award Miglior sceneggiatura a Jordan Peele
2017 - American Film Institute Migliori dieci film dell'anno
2017 - British Independent Film Awards Miglior film indipendente internazionale
2017 - Washington D.C. Area Film Critics Association Miglior film Candidatura per il Miglior regista a Jordan Peele Candidatura per la Miglior sceneggiatura originale a Jordan Peele Candidatura per il Miglior attore a Daniel Kaluuya Candidatura per il Miglior montaggio a Gregory Plotkin
2017 - San Diego Film Critics Society Awards Miglior film Miglior sceneggiatura originale a Jordan Peele Candidatura per la migliore attrice non protagonista a Catherine Keener Candidatura per la miglior performance comica a Lil Rel Howery Candidatura per il miglior cast Candidatura per il miglio regista a Jordan Peele 2018 - Writers Guild of America Award Miglior sceneggiatura originale a Jordan Peele
2018 - Producers Guild of America Awards Candidatura per il Darryl F. Zanuck Award al miglior film
2018 - Independent Spirit Awards Miglior film Miglior regista a Jordan Peele Candidatura per la Miglior sceneggiatura a Jordan Peele Candidatura per il Miglior attore protagonista a Daniel Kaluuya Candidatura per il Miglior montaggio a Gregory Plotkin 2018 - Satellite Award Candidatura per il Miglior film Candidatura per il Miglior regista a Jordan Peele Candidatura per la Migliore sceneggiatura originale a Jordan Peele Candidatura per la Migliore scenografia
L'arte altro non è se non la rappresentazione della società che l'ha prodotta con i mezzi espressivi della propria epoca : ecco dunque che il quadrato dentro il quale si hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri è utopico e la società nel bene o nel male (decisamente più nel male) pulsa al di fuori di quel quadrato...
The Square (2017) Ruben Östlund
Cast: Claes Bang Elisabeth Ross Dominic West Terry Notary
Quanto peso ha il politically correct nelle tanto decantate virtù di uguaglianza, inclusione e correttezza di cui narra una società come la nostra, che ha scelto di secolarizzare, senza risolverlo, il conflitto di classe? Sono davvero queste le qualità sociali, culturali e politiche che regolano i rapporti umani odierni? Oppure sono solo altri brand, buffe parole appiccicate dai sociologi della condivisione forzata sopra un discorso-barattolo vuoto di senso; e la verità è che invece viviamo dentro una società di singolarità in competizione, e ci azzuffiamo ogni giorno con le clave dei nostri egoismi contrapposti? "The Square" di Ruben Östlund, premiato con la Palma d'Oro quest'anno al festival di Cannes, ragiona su molte cose, suddivide il suo discorso in alcune scene memorabili con i tempi della commedia surreale, ma alla fine dei conti affronta gli spettatori - complice un'installazione mostrata a metà film - con una domanda molto precisa: avete fiducia negli altri? Un tema già indagato dal regista svedese nel riuscito "Forza maggiore", lì drammaticamente elaborato in forma di vissuto privato, e in "The Square" allargato invece a un pamphlet satirico scagliato come un sasso dentro lo stagno perbenista di un mondo, il nostro, dove accade persino che uno dei suoi migliori esempi (o forse dovremmo dire prodotti?), cioè Christian (l'ottimo Claes Bang), l'affabile, prestante e istruito curatore del museo di arte contemporanea di Stoccolma, venga derubato di smartphone e portafogli mentre cerca di evitare una lite tra una coppia, vittima di un "trucco" che accade probabilmente tutti i giorni in qualunque città europea, in un'epoca in cui anche il classico furto con destrezza è stato globalizzato. Interdetto di fronte all'accaduto, forse travolto lui stesso dalle conseguenze di tanto altruismo, Christian elabora uno stratagemma pari e contrario per riprendersi il maltolto, che lo porta ad accusare direttamente del furto un'intera classe sociale - immigrati, disoccupati, piccoli delinquenti - rappresentata da un palazzo dormitorio dove dovrebbe trovarsi la refurtiva e abitare, quindi, i presunti ladri. L'escamotage funzionerà alla grande, anzi, funzionerà persino troppo; terrà Christian talmente occupato da fargli perdere di vista il surreale lancio pubblicitario della nuova installazione del museo: The Square appunto, un quadrato di luci di quattro metri per quattro, all'interno del quale tutti noi cittadini saremo finalmente liberi dalla paura, di nuovo fiduciosi gli uni degli altri; un'opera reale, per così dire, che lo stesso Östlund aveva installato nel 2014 nella cittadina di Värnamo. Ma a chi, dunque, e a quali emozioni parla questo quadrato magico, e con esso, l'arte contemporanea tutta? Alzi la mano chi non ha mai provato un po' di smarrimento di fronte agli oggetti artistici della cosiddetta modernità, che a prima vista sembrano aver ben poco a che fare con i concetti classici di bellezza, di irriproducibilità dell'opera, di maestria realizzativa. A che cosa puntano, infatti, dei mucchietti di pietre con la scritta al neon You have nothing, una delle opere esposte nel museo curato da Christian? Dovremmo abbozzare consenso, sconcerto, indifferenza, compiacimento - sempre in maniera politicamente corretta, beninteso - verso cotanta rappresentazione, e scattare addirittura una foto ricordo ai sassetti? In un certo senso sì, perché siamo forse di fronte all'espressione più aderente alla nostra società democratica, distruttrice del concetto di unicità, che ha sottratto al manufatto artistico la sua concezione elitaria; un'operazione, però, che ha reso necessario lo svuotamento di senso dell'oggetto stesso. Esattamente ciò che spiega Christian alla giornalista Anne (l'attrice statunitense Elisabeth Moss) durante un'intervista: anche la sua borsetta potrebbe diventare arte, se esposta all'interno del museo; è più importante, dunque il luogo, il nome, il contesto - in una parola, la trovata - che ruotano intorno al prodotto, che il prodotto stesso. Vi ricorda qualcosa? Già; che fare, quindi? L'alternativa propone di abbandonare questo atto di fiducia, e dare dell'idiota all'artista, come accade al povero Julian (Dominic West di "The Wire") e a chi permette l'esposizione di scempi simili; dovremmo cioè saltare fuori dal quadrato, lontani da ogni discorso sociale sensato (come accade nel film a un uomo affetto da disturbi mentali), etichettare l'arte contemporanea come degenerata e diventare cioè estremi, asociali, antidemocratici: è quello che i media odierni hanno ribattezzato con il nome di deriva populista. Ma attenzione, perché persino la cosiddetta arte contemporanea potrebbe diventare in ogni momento reazionaria e impazzire, come il performer-scimpanzé (magistralmente interpretato dal coreografo Terry Notary del "Pianeta delle Scimmie"), che infatti "esce dal quadro" e giustamente aggredisce i commensali a una cena di gala del museo. A ben vedere, dunque, "The Square" è un film politico, perché ci svela che viviamo in una società paradossale che ha imparato a declinare persino il paradosso; proprio come fa un'altra delle narrazioni sociali a cui siamo abituati: la tolleranza, che si batte anche per permettere la presenza degli stessi intolleranti. Ma è, forse, l'unica maniera che la nostra società conosce per continuare a conservarsi; e la libertà d'espressione, artistica e non, persino quella becera e smaccatamente sensazionalistica, per riprodursi all'infinito senza trovare ostacoli.
RICONOSCIMENTI
2018 - Premio Oscar Candidatura per il Miglior film straniero 2017 - Festival di Cannes Palma d'oro 2017 - National Board of Review Awards Migliori cinque film stranieri 2017 - European Film Awards Miglior film Miglior commedia Miglior regista a Ruben Östlund Miglior attore a Claes Bang Miglior sceneggiatura a Ruben Östlund Miglior scenografia a Josefin Åsberg 2018 - Golden Globe Candidatura per il Miglior film straniero 2018 - Critics' Choice Awards Candidatura per il Miglior film straniero 2018 - Premio Goya Miglior film europeo 2018 - Premio César Candidatura per il Miglior film straniero 2018 - David di Donatello Miglior film dell'Unione europea
Il suicidio di un timida studentessa anima negli studenti un eccessivo sentimentalismo che causerà una rivolta dell'intera classe, nella quale nessuno sa realmente cosa voglia davvero. Un piccolo gioiello, inesorabile, spiazzante, devastante. Guardatelo assolutamente.
Class Enemy (2013) Rok Biček
Interpreti: Igor Samobor Nataša Barbara Gračner Tjaša Teleznik Voranc Boh Jan Zupančič Daša Cupevski
Regia: Rok Biček
Distribuzione: Tucker Film
Durata: 112'
RECENSIONE
"Class Enemy", esordio del non ancora trentenne sloveno Rok Biček - vincitore della Settimana della Critica a Venezia 2013 - si svolge tutto racchiuso entro le mura di una scuola. Zupan, professore di tedesco dai metodi apparentemente fermi a un'epoca che diremmo pre-‘68, sostituisce una professoressa molto amata dalla sua classe, che si deve assentare per maternità. L'impatto con la classe, abituata a metodi educativi odierni - partecipati, morbidi e finanche lassisti - sarà traumatico. Appena pochi giorni dopo, verrà dato alla classe l'annuncio scioccante del suicidio di una studentessa, che proprio da Zupan aveva subito un severo ammonimento. Zupan rimane imperturbabile: pretende anzi di fare della morte della ragazza un esempio educativo. E si ostina in lezioni in lingua totalmente prive di empatia. In classe cova la rivolta. Giacché fa di una classe scolastica un metaforico microcosmo sociale, è inevitabile raffrontare la pellicola di Rok Biček con il capolavoro di Laurent Cantet "La classe" ("Entre les Murs", dentro le mura, era il significativo titolo originale della palma d'oro 2008). Il parallelo tuttavia si ferma qui: oltre alla caratterizzazione radicalmente opposta dell'insegnante protagonista, infatti, le differenze sono palesi sia a livello di messa in scena, sia soprattutto di prospettiva. Biček ha il gusto della provocazione. Laddove Cantet si limitava a riscontrare l'incapacità delle istituzioni a far fronte alla complessità dei conflitti, il giovane regista sloveno punta a sviscerare le ipocrisie dei compromessi democratici. Come registro linguistico, Biček, in sintonia con gli standard attuali, predilige la camera a mano leggermente mossa (restando per fortuna ben lontano dallo stucchevole Dogma-derivatismo che infastidiva la fruizione de "Il caso Kerenes" di P. Netzer, altrimenti notevole). Pur con l'ausilio della camera a mano, capace per sua natura di restituire efficacemente la caotica concitazione degli eventi, Biček (a differenza di Cantet ne "La classe") non riesce sempre a far fluire la pellicola come cogliesse davvero in presa diretta l'esplosione dei conflitti interpersonali. Il che, a un'opera prima, si perdona volentieri: più grave semmai l'inclinazione a fare di quasi ciascun episodio una tesi, e pressoché di ogni gesto un indizio. Il film ne risente, un po' troppo soffocato dall'aspirazione all'allegoria sociologica, esplicita sin dal titolo. Si tratta d'altra parte dell'unico vizio di una pellicola, sì a tesi, sì ambiziosa, ma raffinata e complessa. Alle tesi, difatti, cominciano subito ad affiancarsi le antitesi, cosicché la visione si fa mano a mano più interessante, sino a un twist finale forse non imprevedibile, ma di certo notevole. La negatività in cui sembra essere visto il professor Zupan, progressivamente, si stempera; la ribellione, nel suo estremizzarsi, finisce per nutrirsi di se stessa, strozzarsi in vicoli ciechi di bieco tornaconto, rinnegare le proprie basi (si arriva all'ostilità verso la professoressa un tempo amata). Lo scenario iniziale di rivolta contro la coercizione cede il posto a un articolato affresco, in cui nessuno appare più veramente nel giusto. Tutti interessati anzitutto a difendere il proprio orticello, a mantenere le posizioni acquisite. Mentre intorno si scatena la tempesta, il professor Zupan rimane imperturbabile. Impenetrabile nella sua asetticità, a tratti quasi disumana. La sua funzione diegetica può accostarsi a quella del giovane misterioso, "motore immobile" del "Teorema" pasoliniano. I suoi metodi educativi sono incentrati sul pretendere dagli studenti lo sforzo di individuarsi, attraverso il compimento di scelte e la formazione di opinioni. Ma è rigido e impositivo. Tanto basta a venire tacciato di nazismo. Zupan rappresenta l'elemento di provocazione che svelerà l'ipocrisia dominante, in un generalizzato accomodante e smidollato conformismo. Ad essere ipocriti, e interessati al proprio esclusivo vantaggio non sono tanto i ragazzi (tra i quali pure finiscono per innescarsi conflitti trasversali), quanto i genitori e gli altri insegnanti. Biček non manca di sottolineare, eccedendo nel didascalismo, ma cogliendo comunque nel segno, come quando la professoressa di ginnastica, inizialmente attratta da Zupan, diverrà la sua più ostile nemica dopo esser stata da lui rifiutata. Non sbaglia chi vede in "Class Enemy" l'influenza di Haneke. Se tuttavia c'è, effettivamente, in Biček, un certo sadismo nei confronti del pubblico, è diverso da quello di Haneke, nel cui cinema è proverbiale il rifiuto di fornire risposte. Al contrario, il teorema di Biček ha una sua chiara soluzione, esplicita persino, dal momento che il film si chiude con un discorso del professor Zupan più che mai didascalico. Inoltre, se ad Haneke interessa il principio di autorità e la reazione ad esso (pensiamo a "Il nastro bianco"), Biček è affascinato da come siano i rapporti di forza a permeare le azioni e le reazioni. Con l'intento comunque anche lui, come Haneke, di svelare da ultimo il ruolo fondante dell'ipocrisia, nel tenersi insieme dei rapporti sociali. Biček ha personalità da vendere: attendiamo la sua seconda prova, curiosi di conoscere se cadrà nella tentazione di assecondare i risvolti più schematici della sua acredine polemica, o piuttosto saprà affinare una notevole capacità nel rovesciamento delle aspettative. Una capacità che pare già matura in certi tratti stilistici. Notevoli, in questo senso, due momenti in cui, grazie semplicemente al mantenimento della traccia sonora, i controcampi sul volto intenso e teso di Zupan si rivelano solo dopo diversi secondi essere non già dei controcampi, quanto invece un cambio di scena che spezza l'unità di tempo, luogo e azione in cui da spettatori avevamo creduto ancora di trovarci. Una capacita e un gusto di spiazzamento dello spettatore verso cui ci sembrerebbe interessante potesse tendere la sua poetica e il suo stile.
Vivo triste e solo perchè non comprendo la follia che mi circonda...dovrei avvicinarmi a questa "stranezza aliena" con più fiducia?
Un piccolo gioiello girato con pochi mezzi economici, ma con tanta ricchezza interiore
Orecchie (2016) Alessandro Aronadio
Interpreti:
Daniele Parisi Silvia D'Amico Pamela Villoresi Ivan Franek Rocco Papaleo Piera Degli Esposti Milena Vukotic Niccolò Senni Andrea Purgatori Massimo Wertmüller
Durata: 90 min
Dati tecnici: B/N Rapporto: 1:1, 1,85:1
Soggetto: Alessandro Aronadio, Astutillo Smeriglia Sceneggiatura: Alessandro Aronadio, Valerio Cilio Produttore: Costanza Coldagelli Casa di produzione: Matrioska, Biennale College Cinema Distribuzione (Italia): 102 Distribution Fotografia: Francesco Di Giacomo Montaggio: Roberto Di Tanna Musiche: Santi Pulvirenti Scenografia: Daniele Frabetti
TRAMA E RECENSIONE:
Un mattino, al risveglio, il protagonista avverte un fastidioso fischio alle orecchie. Al contempo trova sul frigorifero un post it, lasciato dalla sua compagna, che lo informa che è morto il suo amico Luigi e gli lascia l'indirizzo della chiesa dove in serata si svolgerà il funerale. La giornata per lui trascorrerà nel tentativo di risolvere il problema uditivo e nel cercare di capire chi possa essere questo amico di cui non ricorda nulla. Nel frattempo non gli mancheranno incontri con persone che non riesce a non considerare strane. Alessandro Aronadio, a sei anni di distanza da Due vite per caso fa nuovamente centro con un film in cui riflette, con i toni della commedia, su questo pazzo pazzo pazzo mondo. Correva l'anno 1967 quando un'altra forma di sibilo si presentava sugli schermi con l'intento di far pensare divertendo. Era Il fischio al naso e il regista era Ugo Tognazzi. Rifacendosi a "Un caso clinico", testo teatrale di Dino Buzzati, Tognazzi proponeva un'allegorica rilettura della vita degli esseri umani senza rinunciare a proporre puntuali osservazioni sulla società. I tempi da allora sono ovviamente cambiati ma la sensazione di disagio esistenziale non è diminuita, anzi. Quanti di coloro che vedranno il film si accorgeranno di aver provato quel fischio in misura maggiore o minore in alcune situazioni? Molti. Ma non si tratta di quel genere di sensazione uditiva che, secondo la credenza, significa che qualcuno ci sta pensando. Tutt'altro. Per Aronadio si tratta della evidenziazione psicosomatica (e del fil rouge del film) della difficoltà ad accettare i vezzi e i vizi di individui che trovano nella loro quotidiana follia, fatta di selfie, di videogiochi, di credenze artificiose, un effetto placebo che consenta loro di ritenersi felici. Il difficile stava nel tentativo di esplicitare quanto sopra senza fare prediche (il discorso finale del protagonista non è da considerarsi tale ma semmai un'intima riflessione ad alta voce). Il risultato è stato felicemente ottenuto grazie a una scrittura capace di cogliere l'assurdo quotidiano senza mai cadere nel grottesco o nel surreale fine a se stesso e grazie anche a un casting che ha messo accanto ad attori di fama come Pamela Villoresi, Piera Degli Esposti, Milena Vukotic e Rocco Papaleo (solo per citarne alcuni) la straordinaria espressività di Daniele Parisi. È con lui che molti finiranno con l'identificarsi pensando che anche a loro è accaduto, in qualche occasione, di guardare al mondo con il suo stesso sguardo. Che è quello di chi si sta costantemente chiedendo se è lui ad essere quello 'sbagliato' o se lo sia invece chi gli sta di fronte. Combattuto ogni giorno tra la tentazione di adeguarsi e la voglia di non arrendersi.
Sceneggiatura ben calibrata, interpreti di un'autenticità esemplare e una realizzazione adrenalinica che non concede pause
'71 (2014) Yann Demange
Paese di produzione: Regno Unito
Anno: 2014
Durata: 99 min
Genere: drammatico
Regia: Yann Demange
Interpreti:
Jack O'Connell Sean Harris Sam Reid Paul Anderson Charlie Murphy David Wilmot Richard Dormer Martin McCann
TRAMA E RECENSIONE
Inghilterra 1971. La recluta Gary Hook viene inviato in Irlanda del Nord. La situazione sarebbe apparentemente semplice (i Protestanti 'amici' da una parte e i Cattolici 'nemici' dall'altra) se non fosse che all'interno dell'IRA ci sono due fazioni in lotta tra loro. L'accoglienza non è ovviamente delle migliori ma le cose si aggravano per il soldato quando scopre casualmente che alcuni ufficiali dell'esercito sono coinvolti nella fabbricazione di ordigni per gli attentati. Il cinema britannico non è certo nuovo a narrazioni che consentano di ripensare il lungo conflitto che insanguinò l'Irlanda del Nord tenendo l'Europa e il mondo intero in ansia. Da Jim Sheridan a Ken Loach è lunga la lista dei registi importanti che hanno affrontato la spinosa questione. In questo caso siamo invece dinanzi a un esordio nel lungometraggio di un regista acclamato per la serie Top Boy il quale non è tanto interessato ad indagare su torti e ragioni degli uni e degli altri o alla ricostruzione storica. Ciò che lo coinvolge e lo spinge a realizzare un film in cui la macchina da presa è in costante movimento non è neppure l'azione finalizzata a se stessa. Gli interessa invece proporre una riflessione (non dimenticando lo spettacolo) sul ruolo assegnato a giovani, ragazzi e bambini in qualsiasi conflitto e ancor più in quelli che lacerano al proprio interno una nazione. A partire dalla recluta Hook (non dimentichiamo che in inglese il termine significa gancio/uncino) '71 è un susseguirsi di speranze, fragilità, possibilità di futuro che vengono infrante da una logica demolitrice di qualsiasi ideale che non sia portatore di morte per il 'nemico' del momento. Chi sembra voler combattere per un futuro migliore da consegnare alle nuove generazioni in realtà ne sta bruciando, giorno dopo giorno, idealmente e materialmente le esistenze. È un film questo in cui lo sguardo e il corpo sempre più segnati del protagonista si aggirano inizialmente interroganti e poi in cerca di salvezza in un inferno in cui anche la luce è sporca e ragazzini e coetanei ne hanno interiorizzato l'ammorbante pervasività che sembra non lasciare scampo.
Le difficoltà a confrontarsi con problematiche che, nonostante la giovane età appaiano consolidate, e la possibilità di un percorso che risvegli creatività, autonomia, e spinta verso al gruppo, sono rappresentate in questo film delicato e surreale
Lars e una ragazza tutta sua (2007)
Titolo originale - Lars and the Real Girl Paese di produzione - USA Anno - 2007 Durata - 106 min
Regia - Craig Gillespie Sceneggiatura - Nancy Oliver
Interpreti e personaggi
Ryan Gosling: Lars Lindstrom Emily Mortimer: Karin Paul Schneider: Gus Lindstrom Kelli Garner: Margo Patricia Clarkson: Dagmar
Lars Lindstrom è un ventisettenne introverso che vive in un piccolo paese del Wisconsin, con pochi amici ed una inesistente vita sociale. Ha molta difficoltà ad intrattenere rapporti normali, sia con i suoi concittadini sia con suo fratello Gus e sua cognata Karin. Un giorno confessa al fratello di aver conosciuto la donna dei suoi sogni, Bianca, una dolce e timida ragazza incontrata su internet. Gus e Karin rimangono però letteralmente senza parole quando conoscono Bianca: infatti non si trovano davanti una ragazza in carne e ossa, bensì una real doll in silicone a grandezza naturale. Lars presenta Bianca come una missionaria di origini brasiliane e danesi costretta su una sedia a rotelle. Preoccupati per la salute mentale di Lars, i due si rivolgono ad una specialista per chiedere consigli. La dottoressa gli consiglia di assecondare Lars in tutto e per tutto, asserendo che è l'unico modo per aiutare Lars a trovare un equilibrio stabile per uscire dalla realtà distorta che si è creato. Per aiutare Lars, si mobiliterà l'intera comunità, assecondando il ragazzo e trattando Bianca come una persona normale. Ma per ironia, sarà proprio Bianca, con la sua disarmante innocenza, ad aiutare la comunità ad aprire le loro vedute.
COMMENTO
E’ la storia di Lars, un ragazzo di ventisette anni, altrettanto timido e schivo, che vive la propria esistenza, quasi senza lasciare alcuna traccia, fuggendo ogni contatto umano. Le sue giornate scorrono nella loro ripetitività, un allontanamento volontario dalla società. La madre è morta nel momento esatto in cui è venuto alla nascita. Vive in una dependance, accanto alla casa di famiglia, dove abitano il fratello Gus e la moglie Karin, i quali tentano, vanamente, di coinvolgerlo nella vita familiare e nella prospettiva di stare per diventare zio. Ad infrangere la monotonia è Lars stesso, quando si presenta sulla soglia di casa e confessa al fratello e alla cognata il suo fidanzamento. La loro felicità si tramuta in shock davanti a Bianca, la fidanzata, che Lars presenta come una giovane missionaria e che in realtà è una bambola gonfiabile. I suoi racconti e il suo comportamento vengono presi come un’evidente manifestazione della sua follia. Nonostante questo, quello che accade è che tutta la comunità asseconderà quella che viene percepita come una forma di pazzia, accogliendo Lars e il suo voler portare avanti questa “relazione”, accettando degli aspetti che potrebbero essere definiti come deliranti. Questo contenitore si strutturerà fino al momento in cui il sentirsi accolto a livello comunitario, gruppale, permetterà a Lars di decidere autonomamente di smettere il sintomo, e di far morire la sua “ragazza”, per iniziare a frequentarne una reale, da cui era già da tempo attratto ma con cui gli sembrava impossibile poter entrare in relazione a causa della sua timidezza. Quello a cui si assiste è la crescita, anche in senso figurato, della famiglia di Lars, da trittico problematico a una pluralità confortante. Grazie a questo sintomo quasi delirante che Lars presenta, potrà accedere ad un’ottica comunitaria, che gli permetterà sia di smettere il sintomo, che elaborare il trauma, la perdita della madre e della funzione materna, che aveva condotto ad una modalità comportamentale di grande riservatezza e di scarso contatto umano. L’improvvisa necessità di Lars di presentare questa ragazza, costruendo una storia “come se”, richiama in fondo il “fantasticare” che talvolta consente a lungo l’appagamento di bisogni, che tuttavia in questo modo non possono trovare realizzazione nella vita reale, fino quasi ad essere negati. In questo la dimensione del gruppo e l’incontro con l’altro da sè, cosi come accade a Lars, consente la possibilità di pensarsi, sia a livello intrasoggettivo, che intersoggettivo, all’interno di una rete di relazioni.
Pellicola liberamente tratta dall'omonimo romanzo di Michela Murgia, che consiglio di leggere vivamente, "L'accabadora" è un film necessario, intenso ed emozionante con una superlativa fotografia. Una pellicola densa di suggestioni che rimandano a un mondo atavico in cui la morte era considerata pienamente parte della vita e affrontata in maniera più consapevole. In una società ancora arcaica la dolce morte appare come un dovere, una sorta di pietas nei confronti dei propri cari per liberarli dalla sofferenza, da un’esistenza che non è più dignitosa, da una vita da definirsi non è più tale...
L'accabadora (2015)
Regia: Enrico Pau
Interpreti: Donatella Finocchiaro Barry Ward Anita Kravos Carolina Crescentini Sara Serraiocco
Durata: 97'
«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce.
Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un'assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l'ultima madre.
RECENSIONE
Primi anni '40. Annetta arriva a Cagliari alla ricerca di Tecla, di cui si è presa cura dopo che la madre della ragazza è morta. Dalla povertà del paese natìo Annetta si trasferisce al lusso del palazzo cagliaritano dove assume l'incarico di custode quando le proprietarie sfollano in campagna per sfuggire ai bombardamenti che stanno devastano il capoluogo sardo. In quella Cagliari sventrata dalla guerra Annetta si muove come un'ombra poiché si vive come un oscuro angelo della morte: ha ereditato dalla madre un compito e un destino, quello dell'accabadora, donna che nella tradizione sarda dava ai malati terminali la "buona morte", soffocandoli con un cuscino o coprendoli con un bastone. Un ruolo che Annetta non ha scelto ma che ha accettato con la quieta rassegnazione con cui molte donne hanno acconsentito al posto loro assegnato in una società arcaica dalle tradizioni millenarie. A scanso di equivoci, L'accabadora non è l'adattamento cinematografico del romanzo di Michela Murgia, ma con quella storia ha alcuni elementi in comune: la figura centrale della portatrice di morte, il suo rapporto con una figlia acquisita che ne disprezza il "mestiere", e un'atmosfera da ghost story popolata di apparizioni spettrali. Enrico Pau, già regista di Pesi leggeri e Jimmy della collina, affronta una figura archetipale della sua Sardegna scegliendo i collaboratori giusti, non solo in ambito cinematografico: la sceneggiatrice Antonia Iaccarino, sua sodale dai tempi del cortometraggio La volpe e l'ape, il graphic novelist Igort che cofirma il soggetto, lo stilista e artista Antonio Marras che ha creato i costumi dell'accabadora. Ognuno di loro lascia la sua impronta sulla storia: l'asciuttezza dei dialoghi e la segretezza pudica e misteriosa attraverso cui i personaggi si rivelano; il taglio "storyboard" di certe inquadrature; la concretezza tattile di tessuti che portano in sé il ricordo di un passato pesante. La gravitas caratterizza anche la protagonista, una splendida Donatella Finocchiaro che incarna Annetta come schiacciata dal peso della colpa, e poi via via alleggerita dalla inattesa apertura verso un destino non già terminalmente segnato. Accanto a lei Sara Serraiocco è una Tecla selvatica e ribelle e Barry Ward, l'attore irlandese protagonista del Jimmy's Hall di Ken Loach (nel cast in quota alla coproduzione irlandese del film), gestisce bene il suo ruolo di estraneo prima ancora che straniero, complice anche un utilizzo della lingua italiana (imparata per l'occasione) inadeguato ma in questo ruolo efficace. Ben due volte i personaggi rispondono ad una domanda importante con un "Non lo so", ed è un piacere vedere in un film italiano contemporaneo questa realistica mancanza di consapevolezza, questa onestà nel riconoscersi pedine su una scacchiera predisposta da altri. La ricerca di senso è il motore che muove ognuno dei ruoli secondo i suoi mezzi e la sua cultura, e si disvela nel percorso, non nelle intenzioni di partenza. Ma è soprattutto la Sardegna degli anni della guerra a fare da protagonista alla storia: quella devastata del capoluogo, con le sue ricchezze nascoste e le sue speranze appese a un filo (meraviglioso l'inserto di un filmato d'epoca che mostra la processione di Sant'Efisio attraverso le macerie), e quella rurale e spoglia inquadrata come un paesaggio western (anche se la camminata fra le spighe dei bellissimi titoli di testa ricorda più la Andrea Arnold di Wuthering Heights o lo Stéphane Brizét di Une Vie). Le scene di interni invece, sapientemente illuminate dal direttore della fotografia irlandese Piers McGrail, devono molto all'iconografia fiamminga, e il controllo del colore, virato non tanto verso un seppia "anticato" quanto verso le tinte opache e polverose dei quadri di Giuseppe Biasi, trasforma le inquadrature in tableaux vivent di gusto raffinato ed essenziale. L'elemento di disturbo, in questa ricerca stilistica, sono alcune scene di stampo più televisivo, come quelle ambientate nell'ospedale o nell'abitazione del medico intrepretato da Barry Ward. Ma laddove l'estetica di Pau domina, e incastona i suoi personaggi in un mondo atavico che ne informa le azioni e i pensieri, L'accabadora è fortemente originale e di grande impatto visivo ed emotivo, e racconta bene quella poesia del niente che nasce dalle rovine e dal conflitto. Le musiche potenti e dolorose di Stephen Rennicks, che rielabora la tradizione dei cantori sardi, elevano ulteriormente la narrazione e la rendono contemporaneamente più profonda del pozzo in cui Annetta è stata immersa fin da bambina da quel matriarcato antico che perpetua vittime e (letteralmente) carnefici.